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AIRP
Associazione Italiana Rene Policistico ETS

Manifestazioni renali in corso di rene policistico autosomico dominante (ADPKD)

(Prof. Francesco Scolari – Presidente del Comitato Scientifico AIRP-, Seconda Divisione di Nefrologia e Dialisi, Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia, Presidio di Montichiari; Cattedra di Nefrologia, Università di Brescia)

1. Anomalie precoci della funzione renale

Molti pazienti con ADPKD presentano una riduzione della capacità di concentrazione urinaria e dell’escrezione di ammonio (5-7). Queste alterazioni precoci sono il risultato della alterazione architetturale strutturale del rene causata dallo sviluppo delle cisti: il processo di sviluppo delle cisti interferisce con il meccanismo di scambio controcorrente e con il trapping dei soluti e dell’ammonio nella midollare renale. E’ anche ipotizzabile la precoce presenza di danno tubulo-interstiziale, che accompagna l’evoluzione della malattia verso l’insufficienza renale. Nelle fasi precoci della malattia questi difetti sono di grado modesto ed esiste spesso un overlap fra individui affetti e non affetti. Il difetto di concentrazione urinaria non ha conseguenze clinicamente evidenti; raramente può comparire polidipsia o poliuria. Giovani soggetti di età media di 12 anni possono mostrare una anormale risposta alla desmopressina. Anche pazienti adulti con normofunzione renale possono avere un modesto difetto di concentrazione urinaria dopo test di assestamento notturno (7). La riduzione della escrezione urinaria di ammonio,  può contribuire, in associazione con un basso valore di pH urinario e di ipocitraturia, allo sviluppo di calcoli di acido urico e ossalato di calcio.

2. Ipertensione

L’ipertensione accompagna il decorso dell’ADPKD nel 50-70% dei casi e presenta aspetti patogenetici peculiari (8). La comparsa di uno stato ipertensivo spesso precede la riduzione del filtrato glomerulare. Una riduzione del flusso plasmatico renale può essere riscontrato in soggetti giovani affetti da ADPKD quando ancora la pressione arteriosa è nei limiti di norma. Giovani adulti affetti da ADPKD hanno valori ambulatoriali di pressione arteriosa più elevati ed un indice di massa ventricolare sinistra maggiore rispetto a controlli di pari età, anche quando i valori di pressione arteriosa si collocano entro un range di normalità. L’aumento di attività del sistema renina angiotensina e l’espansione del volume extracellulare sono spesso presenti precocemente nel corso di ADPKD  e svolgono un ruolo chiave nel determinare l’aumento della pressione arteriosa. E’ stato suggerito che l’espansione delle cisti, determinando focali aree di ischemia renali e di incremento di produzione di renina, sia largamente responsabile almeno dell’aumento iniziale della pressione arteriosa. Due osservazioni sono compatibili con questa ipotesi. La prima è che il grado di ipertensione arteriosa nelle fasi precoci della malattia  varia con la severità delle alterazioni strutturali parenchimali:  i pazienti con una pressione arteriosa elevata tendono ad avere un maggior volume cistico renale rispetto ai soggetti con ADPKD normotesi. La seconda osservazione è che i pazienti con ADPKD, normofunzione renale ed ipertensione arteriosa mostrano livelli di attività reninica plasmatica significativamente maggiori rispetto a pazienti con ipertensione arteriosa essenziale in clinostasi, ortostasi e dopo stimolazione con captopril. Il ruolo della ritenzione sodica e degli ormoni vasoattivi nella genesi della ipertensione sono meno chiari. Aldosterone e  vasopressina mostrano livelli elevati nei pazienti ipertesi con ADPKD. Il  volume plasmatico tende ad essere uguale a quello visto nei pazienti con ADPKD normotesi. I livelli circolanti di prostaglandine e di norepinefrina non differiscono tra ipertesi e normotesi pazienti con ADPKD, anche se sul ruolo del sistema simpatico esistono opinioni contrastanti in letteratura (8-14).
La comparsa di uno stato ipertensivo si associa ad una più rapida progressione della malattia renale verso la fase terminale. Ecder e coll. (12) ha osservato una riduzione annua del GFR pari a 3.4 ml/min. in un gruppo di pazienti con ADPKD ipertesi trattati con ACE-I o amlodipina in cui si era ottenuto un controllo su valori standard della pressione arteriosa (< 140/90 mm Hg). Questi risultati risultavano favorevoli quando confrontati con i dati storici del MDRD study relativi alla velocità di progressione della malattia renale nei pazienti con ADPKD con pressione arteriosa non controllata (riduzione del GFR di 5.8 e 5.3 mL/min – studio MDRD A e B, rispettivamente). Questi dati, benché limitati, suggeriscono che il controllo dell’ipertensione arteriosa sia in grado di avere, in corso di ADPKD, un effetto renoprotettivo. Il farmaco antiipertensivo di prima scelta nell’ipertensione arteriosa del paziente con ADPKD non è stato stabilito con certezza.  In considerazione del ruolo del SRA nella patogenesi dell’ipertensione arteriosa, ACE-I e sartani ACE rivestono un ruolo particolare. I pazienti con ipertensione e ADPKD generalmente rispondono bene alla terapia con ACE-I. Poiché un danno di tipo glomerulosclerotico sembra avere un ruolo limitato nella progressione del danno renale in corso di ADPKD, non sembra probabile che gli ACE-I svolgano un ruolo nefroprotettivo mediante il tradizionale meccanismo emodinamico che ruota attorno alla riduzione della pressione intraglomerulare  e della ipertrofia glomerulare. E’ pero ipotizzabile che i pazienti con ADPKD che si presentano con proteinuria dosabile possano beneficiare di questo meccanismo nefroprotettivo degli ACE-I, analogamente a quanto descritto per le altre forme di nefropatia cronica. Alcuni studi hanno confrontato ACE-I e diuretici, ACE-I e calcioantagonisti, e ACE-I  e betabloccanti. Il disegno dello studio, la modestia del sample size ed il breve follow-up non permettono di trarre conclusioni definitive. La meta-analisi di Jafar e coll. (15) comprendente 8 trials randomizzati sulla progressione della malattia renale e sul ruolo degli ACE-I  sembra confermare questi suggerimenti. L’impiego di ACE-I veniva valutato in 142 pazienti  con ADPKD, con una proteinuria media di 942 mg nelle 24 ore. Dopo un follow-up medio di 2.3 anni, nel gruppo trattato con ACE-I la proteinuria si riduceva significativamente nel gruppo trattato con ACE-I; tuttavia benché vi fosse un trend verso un rallentamento della progressione, questo non risultava essere significativo. Una questione irrisolta in corso di ADPKD  è quello del valore ottimale di pressione arteriosa da raggiungere in corso di terapia antiipertensiva. Per affrontare questo aspetto, 75 pazienti con ADPKD, ipertensione ed ipertrofia ventricolare sinistra erano randomizzati a “rigoroso” controllo della PA  (<120/80 mmHg) o a controllo “standard” della pressione arteriosa (135-140/ 85-90 mmHg) (14). Dopo 7 anni di follow-up, la funzione renale era simile in entrambi i gruppi mentre era osservato un miglioramento dell’indice di massa ventricolare sinistra che si riduceva in modo significativamente maggiore nei pazienti del gruppo con controllo “rigoroso” della pressione arteriosa. Il follow-up a lungo termine dello studio MDRD ha mostrato che soggetti con ADPKD randomizzati  a “low blood pressure target” (Pressione Arteriosa Media  <92 mmHg) raggiungevano l’end-point sia primario che combinato (ESRD e ESRD/MORTE) con una frequenza significativamente minore rispetto ai soggetti trattati nel braccio dello studio “usual blood pressure target (<107 mmHg) (16). In conclusione, sulla scorta dei dati  esposti sembra ragionevole considerare 120/80 mmHg il valore ottimale di pressione arteriosa da raggiungere nei pazienti con ipertensione arteriosa e ipertrofia ventricolare sinistra. Argomento che resta aperto alla discussione è quando iniziare la terapia antiipertensiva, decisione complicata dal fatto che la ipertrofia ventricolare sinistra spesso inizia nei giovani adulti prima dell’esordio di una ipertensione “overt”. Infine, in assenza di controindicazioni, l’ACE-I dovrebbe essere il farmaco di prima scelta. E’ attualmente in corso uno studio prospettico randomizzato volto a confrontare la monoterapia con ACE-I con la terapia combinata ACE-I e sartano.

3. Dolore renale

Il dolore renale è una manifestazione comune in corso di ADPKD. La sintomatologia dolorosa può essere acuta o cronica. Il sintomo più comune è il dolore lombare e/o ai fianchi, presente in oltre il 50% dei casi. Il dolore può anche essere la prima manifestazione della malattia ed è più frequente nei soggetti che hanno  reni maggiori di 15 cm di diametro. In genere, un dolore ad esordio acuto riflette una complicanza sovrapposta alla presenza di cisti renali. Le possibili eziologie sono la comparsa di emorragia cistica con passaggio di coaguli nel tratto urinario; la presenza di nefrolitiasi con un calcolo ostruente; un processo infettivo coinvolgente le cisti; raramente, un tumore.
Il dolore cronico, sordo, persistente, con eventuali riaccensioni, è invece usualmente riconducibile allo stiramento che si determina sulla capsula renale o alla trazione sul peduncolo renale. Una compressione da parte delle cisti può verificarsi sulle strutture adiacenti determinando senso di ripienezza, inappetenza ed anoressia per compressione sugli organi endoaddominali (inclusa la vena cava inferiore) (1, 2).
In genere, il dolore ha carattere autolimitante e si risolve in 2-7 giorni. La maggioranza dei pazienti richiede analgesici, inclusi i FANS, per un periodo limitato e se non vi è una insufficienza renale avanzata. In alcuni pazienti invece il dolore è persistente tale da ridurre notevolmente la qualità di vita e richiedere analgesici maggiori. Un dolore grave, refrattario ai farmaci, può essere trattato chirurgicamente, con decompressione delle cisti. Se l’ecografia mostra una grossa cisti in corrispondenza dell’area del dolore, la prima scelta è il drenaggio percutaneo ecoguidato, cui può far seguito una sclerosi con etanolo al 95%. Le complicanze, di solito minori, sono rappresentate da microematuria, dolore in sede locale, febbre transitoria. Più serie ma fortunatamente rare complicanze sono lo pneumotorace, l’ematoma perirenale, la fistola arterovenosa, la comparsa di urinoma  e di infezione. In soggetti con molte cisti in grado di provocare dolore refrattario,  si può procedere a fenestrazione sia con tecnica chirurgica classica che con con tecnica laparoscopica. La decompressione chirurgica riduce il dolore addominale dovuto allo sviluppo delle cisti nella maggioranza dei casi (60-80% dei pazienti); tuttavia, la chirurgia dà solo un beneficio temporaneo e non rallenta la progressione della malattia. La natura invasiva della decompressione chirurgica ne limita l’uso a pazienti con dolore persistente invalidante o controllato solo da terapia con oppiacei. La nefrectomia è l’ultima risorsa, ed è usualmente riservata a condizioni caratterizzate dal riscontro di cisti massive e numerose, in preparazione al trapianto per infezioni ricorrenti o per creare spazio in corrispondenza dell’eventuale area chirurgica in sede pelvica, o in presenza di degenerazione neoplastica (17-19).

4. Ematuria

L’ematuria, spesso macroscopica, si manifesta nel 35-50% dei casi e può essere il sintomo di presentazione della malattia. A volte è possibile identificare un evento precipitante, come uno sforzo fisico intenso. La rottura di una cisti nel sistema urinario è di solito la causa dell’ematuria. Anche una calcolo può essere responsabile di ematuria. Infine, se l’ematuria è prolungata e ricorrente, in soggetti maschi di oltre 50 anni, bisogna escludere la presenza di un carcinoma renale. Il sanguinamento di una cisti è evento frequente; tuttavia, di solito la modalità di presentazione è il dolore più che l’ematuria, perchè la maggior parte delle cisti non comunica direttamente con il  tratto urinario. L’ematuria secondaria a rottura delle cisti di solito si risolve nel giro di pochi giorni con sola terapia conservativa che comprende riposo a letto, analgesici ed idratazione. Eccezionalmente, l’episodio di sanguinamento è più severo con formazione di ematoma subcapsulare o retroperitoneale. Se l’emorragia è persistente e severa, un’angiografia con embolizzazione o l’approccio chirurgico possono rendersi necessari (20, 21).Il dolore cronico, sordo, persistente, con eventuali riaccensioni, è invece usualmente riconducibile allo stiramento che si determina sulla capsula renale o alla trazione sul peduncolo renale. Una compressione da parte delle cisti può verificarsi sulle strutture adiacenti determinando senso di ripienezza, inappetenza ed anoressia per compressione sugli organi endoaddominali (inclusa la vena cava inferiore) (1, 2).
In genere, il dolore ha carattere autolimitante e si risolve in 2-7 giorni. La maggioranza dei pazienti richiede analgesici, inclusi i FANS, per un periodo limitato e se non vi è una insufficienza renale avanzata. In alcuni pazienti invece il dolore è persistente tale da ridurre notevolmente la qualità di vita e richiedere analgesici maggiori. Un dolore grave, refrattario ai farmaci, può essere trattato chirurgicamente, con decompressione delle cisti. Se l’ecografia mostra una grossa cisti in corrispondenza dell’area del dolore, la prima scelta è il drenaggio percutaneo ecoguidato, cui può far seguito una sclerosi con etanolo al 95%. Le complicanze, di solito minori, sono rappresentate da microematuria, dolore in sede locale, febbre transitoria. Più serie ma fortunatamente rare complicanze sono lo pneumotorace, l’ematoma perirenale, la fistola arterovenosa, la comparsa di urinoma  e di infezione. In soggetti con molte cisti in grado di provocare dolore refrattario,  si può procedere a fenestrazione sia con tecnica chirurgica classica che con con tecnica laparoscopica. La decompressione chirurgica riduce il dolore addominale dovuto allo sviluppo delle cisti nella maggioranza dei casi (60-80% dei pazienti); tuttavia, la chirurgia dà solo un beneficio temporaneo e non rallenta la progressione della malattia. La natura invasiva della decompressione chirurgica ne limita l’uso a pazienti con dolore persistente invalidante o controllato solo da terapia con oppiacei. La nefrectomia è l’ultima risorsa, ed è usualmente riservata a condizioni caratterizzate dal riscontro di cisti massive e numerose, in preparazione al trapianto per infezioni ricorrenti o per creare spazio in corrispondenza dell’eventuale area chirurgica in sede pelvica, o in presenza di degenerazione neoplastica (17-19).

5. Nefrolitiasi

La prevalenza di calcoli renali nei pazienti con ADPKD  è del 20%. Diversamente da quanto succede nei soggetti non ADPKD con calcolosi ricorrente,  che formano prevalentemente calcoli di ossalato di calcio, oltre la metà dei calcoli è composta da acido urico; i restanti sono composti da calcio ossalato.
Tra i fattori predisponesti lo sviluppo di calcoli in corso di ADPKD da segnalare
1) la presenza di stasi urinaria, secondaria alla anatomia renale distorta dalle cisti
2) il ruolo di alcuni fattori metabolici, quali la riduzione della escrezione di ammonio, un basso pH urinario ed una ipocitraturia.
La presenza di calcoli deve essere sospettata in presenza di dolore lombare acuto accessionale. La diagnosi ecografica non è agevole, ed è più difficile che nei soggetti con calcolosi idiopatica, sia per la presenza di cisti di variabili dimensioni che per il frequente riscontro di calcificazioni della parete delle cisti stesse. Bisogna considerare pertanto come indagine elettiva la TAC renale, senza ed eventualmente con mezzo di contrasto iodato, in grado di documentare la presenza di piccoli calcoli radiotrasparenti. Il trattamento della nefrolitiasi nei soggetti con ADPKD non è diversa rispetto a quanto viene proposto per gli individui non affetti da ADPKD. L’impiego di citrato di potassio è la terapia di scelta nella litiasi da acido urico, da ossalato di calcio con associata ipocitraturia e con difetti di acidificazione distale. Il trattamento dei calcoli ostruenti è ovviamente più difficile nel paziente con ADPKD. La presenza di cisti di grosse dimensioni può rendere difficoltose sia la nefrostomia percutanea che l’ESWL. Nonostante queste limitazioni, l’ESWL è stata impiegata con successo in pazienti con calcoli di piccole dimensioni (< 2 cm di  diametro) localizzati nella pelvi renale o nei calici. La frequenza con cui residuano frammenti di calcoli è maggiore nei pazienti con ADPKD, e questo probabilmente riflette l’attenzione usata per minimizzare il numero di shock waves in questi pazienti (22, 23).In genere, il dolore ha carattere autolimitante e si risolve in 2-7 giorni. La maggioranza dei pazienti richiede analgesici, inclusi i FANS, per un periodo limitato e se non vi è una insufficienza renale avanzata. In alcuni pazienti invece il dolore è persistente tale da ridurre notevolmente la qualità di vita e richiedere analgesici maggiori. Un dolore grave, refrattario ai farmaci, può essere trattato chirurgicamente, con decompressione delle cisti. Se l’ecografia mostra una grossa cisti in corrispondenza dell’area del dolore, la prima scelta è il drenaggio percutaneo ecoguidato, cui può far seguito una sclerosi con etanolo al 95%. Le complicanze, di solito minori, sono rappresentate da microematuria, dolore in sede locale, febbre transitoria. Più serie ma fortunatamente rare complicanze sono lo pneumotorace, l’ematoma perirenale, la fistola arterovenosa, la comparsa di urinoma  e di infezione. In soggetti con molte cisti in grado di provocare dolore refrattario,  si può procedere a fenestrazione sia con tecnica chirurgica classica che con con tecnica laparoscopica. La decompressione chirurgica riduce il dolore addominale dovuto allo sviluppo delle cisti nella maggioranza dei casi (60-80% dei pazienti); tuttavia, la chirurgia dà solo un beneficio temporaneo e non rallenta la progressione della malattia. La natura invasiva della decompressione chirurgica ne limita l’uso a pazienti con dolore persistente invalidante o controllato solo da terapia con oppiacei. La nefrectomia è l’ultima risorsa, ed è usualmente riservata a condizioni caratterizzate dal riscontro di cisti massive e numerose, in preparazione al trapianto per infezioni ricorrenti o per creare spazio in corrispondenza dell’eventuale area chirurgica in sede pelvica, o in presenza di degenerazione neoplastica (17-19).

6. Infezioni delle vie urinarie (ivu) ed infezione delle cisti

Dal 30 al 50% dei pazienti con ADPKD sviluppano uno o più episodi infettivi delle vie urinarie nel corso della vita. Analogamente a quanto si verifica nella popolazione generale, le femmine con ADPKD vanno incontro ad infezioni del tratto urinario più frequentemente dei maschi; inoltre, la maggioranza delle infezioni sono causate da E. coli e da altre enterobacteriaceae.
L’impiego di strumentazione per indagini endoscopiche è da considerare particolarmente rischioso nei pazienti con ADPKD. Le infezioni possono essere limitate al basso tratto urinario, caratterizzate in questo caso da disuria e pollachiuria. Tuttavia, infezioni a carattere retrogrado possono risalire dalla vescica verso il tratto alto delll’albero urinario e determinare pielonefrite e/o infezioni delle cisti. Raramente, l’infezione si può complicare con un ascesso perirenale. Una infezione alta nei soggetti con ADPKD si manifesta con febbre e dolore lombare, e può essere associata a batteriemia. Distinguere fra pielonefrite ed infezione delle cisti non è agevole; una infezione del parenchima renale non vuole necessariamente dire infezione a carico delle cisti. In genere si ritiene che la presenza di cilindri leucocitari e di piuria sia suggestiva di pielonefrite acuta, mentre i pazienti con una cisti infetta possono presentare la comparsa di un’area di tensione in sede renale precedentemente non presente all’esame obiettivo ed un sedimento urinario non significativo; un dato importante è che una infezione che coinvolga preminentemente le cisti può decorrere con una urinocoltura negativa, vista la non comunicazione fra tratto urinario e cisti.
La principale diagnosi differenziale deve essere posta con una cisti emorragica. La presenza di dolore lombare, febbre, leucocitosi e urocoltura positiva (e nel 50% dei casi anche all’interno della cisti. Lo studio con tecniche di medicina nucleare (globuli bianchi marcati con gallio o indio) sono inficiate da un’elevata percentuale di falsi positivi e falsi negativi. In presenza di un quadro clinico di difficile interpretazione, o caratterizzato da febbre non responsiva al trattamento, può essere presa in considerazione la eventualità di  una aspirazione della cisti TAC od eco-guidata per esame colturale. Un esordio acuto di dolore lombare in assenza di febbre e di disturbi disurici è più tipico di una emorragia delle cisti. Lo studio con TAC renale o MR può essere di aiuto perchè fornisce dettagli anatomici importanti; tuttavia, spesso non risolve il dubbio perchè le modificazioni indotte da un’infezione sono analoghe a quelle causate da una emorragia
I pazienti con ADPKD ed infezione renale devono essere trattati per via parenterale con un’associazione di aminoglicoside ed ampicillina, così come si tratta un episodio acuto di pielonefrite in un soggetto non-ADPKD. La terapia, dopo adeguato miglioramento dei sintomi, deve essere continuata per os fino ad un totale di 14-21 giorni, in modo da eradicare l’infezione parenchimale e la batteriemia. Se l’infezione è sostenuta da streptococco o stafilococco, possono essere impiegate vancomicina o eritromicina;  metronidazolo o clindamicina sono di prima scelta se vengono isolati microorganismi anaerobi.
Se la terapia antibiotica è appropriata, il paziente dovrebbe rispondere rapidamente, entro 5-7 giorni dall’inizio della terapia iniettiva. Se la risposta non è completa, è verosimile che vi sia un coinvolgimento infettivo di una o più cisti. Si deve pertanto modificare la terapia antibiotica, impiegando antimicrobici in grado di penetrare l’epitelio delle cisti renali. La maggior parte delle cisti non sono infatti in contatto diretto con il glomerulo; pertanto la terapia antibiotica deve penetrare nelle cisti attraverso un meccanismo diverso da quello della filtrazione glomerulare. Questo processo si verifica per diffusione. L’epitelio che ricopre le cisti possiede le caratteristiche anatomiche e funzionali dell’epitelio tubulare distale; la penetrazione si realizza pertanto via tight junctions, permettendo il passaggio solo agli agenti solubili nei lipidi. Il processo di diffusione si realizza pertanto in modo molto più efficace quando si impiegano antibiotici lipido-solubili. Alcuni farmaci che pur possiedono un ampio spettro, quali aminoglicosidi ed ampicillina, non sono in grado di penetrare nelle cisti in modo significativo. I farmaci che raggiungono concentrazioni terapeutiche efficaci nelle cisti e che sono contemporaneamente attivi contro i batteri gram-negativi di origine enterica sono il trimethoprim-sulfametoxazolo, ciprofloxacina ed altri chinolonici, e cloramfenicolo. La durata ottimale della terapia non è ben stabilita ma i pazienti con infezione di una cisti deve essere trattato per almeno 4-6 settimane. Se l’infezione recidiva alla sospensione dell’antibiotico, la terapia deve essere ripresa e protratta per 2-3 mesi o più.
La maggior parte dei pazienti risponde ad una terapia antibatterica appropriata. Tuttavia, benché raramente, cisti infette, specie se di grandi dimensioni, possono non rispondere in modo adeguato. In questi casi deve essere attentamente valutato il drenaggio percutaneo o chirurgico della cisti,  difficile da eseguire perchè è difficile discriminare radiologicamente quali sono le cisti infette. Il drenaggio è invece indicato in presenza di ascesso perirenale refrattario alla terapia antimicrobica. La nefrectomia chirurgica è l’ultima risorsa disponibile ed è di solito riservata a casi di infezioni da microorganismi gas-forming e nei pazienti con infezioni ricorrenti in previsione di trapianto renale, per minimizzare il rischio di infezione post-trapianto in corso di terapia immunosoppressiva (24- 28).

7. Carcinoma renale

ll carcinoma renale non si manifesta più frequentemente nei soggetti con ADPKD rispetto alla popolazione generale. Tuttavia quando il carcinoma si manifesta nei pazienti con ADPKD, presenta un background biologico diverso che si traduce in alcune caratteristiche cliniche peculiari, che includono più precoce età all’esordio e presenza di segni sistemici, in particolare febbre. Inoltre in corso di ADPKD i tumori sono più spesso bilaterali, multicentrici e di tipo sarcomatoso. La diagnosi di carcinoma è difficile nel paziente con ADPKD. Segni quali ematuria, dolore lombare sono relativamente frequenti in questi pazienti, come pure il riscontro di cisti complicate alla TAC o alla RM pur in assenza di malignità. Alcuni segni sistemici possono aiutare (febbre, anoressia, affaticamento, perdita di peso) in assenza di infezione), come pure il rapido aumento di volume di una cisti complicata. L’aspirazione percutanea con esame citologico può essere eseguita in casi sospetti e di difficile interpretazione (29).

8. Insufficienza renale progressiva

Circa il 50% dei soggetti con ADPKD  sviluppa insufficienza renale cronica terminale entro i 60 anni. E’ stato stimato che una volta che una volta instaurata, l’insufficienza renale proceda con un deterioramento annuo del GFR di circa di 5 ml/min. Sulla scorta di casistiche pubblicate in letteratura, è stato possibile calcolare la probabilità di sviluppare insufficienza renale terminale richiedente dialisi nei vari gruppi di età:  inferiore al 2% sotto i 40 anni; del 20-25% a 50; del 35- 45% a 60; del 50- 75% a 70-75 anni. (2, 3). Questi dati sono limitati dal fatto che sono riferiti all’era pre-genotyping, quando ancora non si conoscevano le differenze fra PKD1 e PKD2.  Raramente, l’ADPKD può evolvere verso l’insufficienza renale terminale anche in età pediatrica.  Numerosi fattori di rischio per lo sviluppo di end-stage renal disease sono stati identificati, tra cui una giovane età alla diagnosi (usualmente sotto i 30 anni); la razza (gli Afro-Americani sembrano presentare forme più severe di ADPKD); il sesso maschile (anche se non tutti i dati concordano); il tipo di anomalia genetica (PKD1 versus PKD2); il numero degli episodi di macroematuria; lo sviluppo precoce di  ipertensione; le dimensioni dei reni (30-33).
E’ ampiamente documentato che i pazienti con PKD2 hanno un fenotipo meno severo (34). In un’ampia casistica, l’età media all’ESRD era di 53 anni nei pazienti con PKD1 e di  69 anni nei pazienti con PKD2; l’età media all’esordio dell’insufficienza renale era 54 e 74 anni nei pazienti con PKD1 e PKD2, rispettivamente. Altri eventi renali, quali ipertensione ed infezioni del tratto urinario erano meno frequenti nei pazienti con PKD2 rispetto a quelli con PKD1. Dati recenti del gruppo della Mayo Clinic suggeriscono che il PKD1 è più severo perchè associato ad un numero maggiore di cisti (35).
Sin dai tempi di Dalgaard (36) (che aveva notato come gli episodi di macroematuria e il riscontro di “palpable kidneys” all’esame obiettivo precedeva il riscontro di uremia) era opinione accettata che causa della insufficienza renale cronica erano lo sviluppo e la progressiva crescita delle cisti renali. Queste osservazioni sono state confermate negli anni successivi con varie metodiche radiologiche. Recentemente, gli studi coordinati dal Consortium for Radiologic Imaging Studies of Polycystic kidney Disease (CRISP)  (37-40) hanno apportato definitivi elementi di conoscenza. In una coorte di 242 pazienti, il volume dei reni e delle cisti ed il flusso plasmatico renale erano valutati mediante risonanza magnetica (MR) ed erano correlati con il grado di funzione renale, valutata mediante clearance dello iotalamato. Le misurazioni sequenziali di questi parametri nel corso di 3 anni hanno mostrato un aumento del volume medio dei reni e delle cisti; la velocità di modificazioni del volume medio renale era del 5% annuo. I pazienti con reni di maggiori dimensioni in condizioni basali esibivano proporzionalmente un maggior aumento di volume. Inoltre, era osservata una correlazione inversa fra GFR e crescita del volume renale e delle cisti; tuttavia, un decremento significativo del GFR era documentato solo nei soggetti con volume renale >1500 ml in condizioni basali (- 4 ml/min/anno). Infine, i pazienti con PKD2 mostravano reni di dimensioni minori in condizioni basali (711 ml vs 1197 ml in quelli con PKD1), ed un più ridotto incremento in valore assoluto durante il follow-up (136 ml versus 245 ml). Il GFR misurato aumentava nel gruppo con PKD2 group  (+8.2 ml/min) e si riduceva nel gruppo con PKD1  (-2.4 ml/min) (40).
Oltre alla eterogeneità genetica al locus, esiste una eterogeneità allelica, in base alla quale si può prevedere che ereditare una specifica mutazione è associato ad un determinato fenotipo clinico. Trasferito nella  pratica clinica, questo significa che in un dato paziente la prognosi della malattia può essere dedotta dal decorso clinico osservato negli altri membri familiari. Una significativa variabilità interfamiliare, relativa a sopravvivenza del paziente e del rene e a prevalenza di ipertensione, secondaria a differenti aplotipi associati alla malattia, era osservata 10 ampie famiglie scozzesi con PKD1. Una analoga correlazione genotipo-fenotipo è stata riportata anche per il PKD2.
Tuttavia, una eterogeneità clinica sostanziale è stata descritta anche in pazienti che ereditano la stessa mutazione, configurando una variabilità fenotipica intrafamiliare, in base alla quale pazienti che ereditano la stessa mutazione possono mostrare una sopravvivenza renale marcatamente diversa. Una possibile spiegazione della variabilità intrafamiliare che si osserva in pazienti che portano la stessa mutazione è che  geni modificatori (fattori genetici diversi dal gene PKD) siano in grado di aumentare la severità del fenotipo clinico indotto dal gene mutato. In conclusione, il fenotipo familiare dipende certamente dalla specifica mutazione ereditata a carico del PKD1 (o PKD2) ma anche dalla presenza di altri fattori genetici che interagiscono con il gene-malattia modificando il fenotipo. Nell’uomo, la identificazione di questi geni modificatori richiede ulteriori studi. Infine, anche i fattori ambientali possono concorrere in varia misura a determinare il fenotipo clinico (41-48).
Nonostante queste acquisizioni, il meccanismo intimo con cui si determina la progressione verso l’insufficienza renale progressiva non è del tutto chiarito.  Benchè le cisti abbiano una espressione focale (si formano in un ridotto numero di nefroni), è stato inizialmente suggerito che il meccanismo fosse secondario alla crescita delle cisti, in grado di  determinare compressione sul parenchima adiacente. Tuttavia, vi sono scarse evidenze di di compressione di tessuto nel rene; inoltre, è curioso che il fegato, sede di analoga formazione di cisti, sia  raramente associato con insufficienza d’organo. Anche una significativa quota di glomerulosclerosi è stata esclusa, che suggerisce un ruolo minore per i fattori emodinamici quale causa della insufficienza renale progressiva. Bisogna pertanto pensare che altri fattori svolgano un ruolo chiave nel progressivo peggioramento della funzione renale. La valutazioni istologica di tessuto renale di pazienti con ADPKD con insufficienza renale sia precoce che avanzata ha inoltre permesso di correlare in modo significativo la progressiva insufficienza renale con presenza di sclerosi vascolare e di fibrosi interstiziale. La relazione esistente fra queste modificazioni istologiche e la formazione delle cisti resta tuttavia da chiarire. E’ stato suggerito, sulla scorta di alcuni dati recenti che mostravano un aumento di apoptosi nelle cellule non-cistiche tubulari e glomerulari di pazienti con ADPKD ed insufficienza renale, che le cisti possano promuovere la progressiva insufficienza renale causando apoptosi (49-50).